Non può finire così

8' di lettura 13/07/2019 - Parafrasando le parole del Calamandrei, che invitava a visitare i luoghi della Resistenza per capire la Costituzione, io invito a vedere i luoghi terremotati per capire ciò che non fa più notizia.

Se volete quindi andare a vedere com’è la situazione nei luoghi del terremoto a tre anni di distanza, andate là dove la case sono crollate, dove la gente è andata via, dove la vita si è fermata. Solo lì vi renderete conto che i problemi non sono stati risolti, che poco o nulla è stato fatto e che il famigerato progetto dello ‘spopolamento della montagna’ finalmente sta a buon punto, con l’accelerazione improvvisa che le scellerate scelte politiche degli anni passati hanno avuto con le scosse telluriche infinite.

Parto da Camerino, la mia città terremotata, alla volta della montagna. Attraverso Muccia, Pieve Torina per arrivare a Visso, Castelsantangelo sul Nera e Ussita, che in questi periodi estivi vivevano il loro massimo splendore, luoghi che appartengono ai miei ricordi di ragazza con le compagne di scuole e gli amici che abitavano lì, in cui ho passato giorni interi, con i negozietti tipici, le bellezze naturali e architettoniche. Perché se sei ‘montanara’, lo sei nel profondo dell’anima, dal Monte Bove fino al punto in cui la terra sta ben più alta del livello del mare. Sono paesi adesso vuoti, abbandonati, lo so bene, eppure ogni anno mi meraviglio del peggioramento. Quello che non ha distrutto il terremoto, lo stanno facendo tre anni di immobilismo e di incuria.

Arrivo a Castelsantangelo sul Nera attraverso una strada perfettamente asfaltata, che fa presupporre che tutto sia sistemato, ammiro l’imponenza della montagna, supero lo stabilimento della Nerea in piena produzione. Nell’unico rifornimento della montagna (a Pieve Torina, Visso e Ussita i distributori di carburanti sono stati tutti chiusi dopo il terremoto) trovo due signori che chiacchierano, volgo lo sguardo verso quel paese distrutto, con la campana a penzoloni dal campanile senza punta, con le crepe sui muri a mostrare una quotidianità spazzata via in pochi attimi quel maledetto 26 ottobre del 2016, soffocato dai rovi, avvolto dal silenzio. Mi inoltro per le strade che sono al di fuori del cerchio della zona rossa, guardo con il cuore gonfio architravi spezzati, spigoli sprofondati, vetri rotti, vettovaglie abbandonate e coperte da erbacce e dal cielo iniziano a scendere gocce di pioggia mentre c’è il sole, quasi lacrime su una realtà annientata.

Riprendo la strada perfetta, incontro una camionetta dei Carabinieri e un vecchio mezzo dell’Esercito e arrivo a Ussita, altro comune, stesso scenario. Visso, stesso dolore. Dovrebbe essere pieno di turisti di questi tempi, soprattutto di romani che con la loro inconfondibile parlata sono ritornati a godersi il fresco al paese. Il centro storico lacerato e inaccessibile, intorno le strutture realizzate da benefattori privati – perché qui personaggi come Bocelli e aziende come Nero Giardini, Loro Piana hanno fatto di più del Paese Italia – alcuni avventori e i titolari dei negozi storici nelle sedi delocalizzate. Mi fermo e prendo un pezzo del dolce tipico “San Paolo da Visso”, ma la meringa dolce sopra alla marmellata ai frutti di bosco non riesce a toglie l’amaro che sento in bocca. Ci salutiamo con Fabio, titolare di uno dei negozi storici di Visso, che ricorda la deportazione del 26 ottobre verso la costa, la violenza di dover lasciare subito abitazione e animali per mettere in salvo la propria vita, il ritorno la mattina successiva in un posto che non è più il tuo. L’impossibilità di raggiungere la stalla per dar da mangiare alle bestie, i nervosismi e le parole, anche grosse, rivolte a chi te lo impediva, seppure per il tuo bene. Ora ha un nuovo negozio, ma si stava meglio prima, è l’amara conclusione di chi è davvero ‘resiliente’.

Di ritorno mi fermo a Pieve Torina: anche qui ci sono strutture nuove realizzate dopo il terremoto per accogliere le attività produttive e spazi lasciati vuoti da case abbattute. E’ strano come non ci si riesca più ad orientare negli spazi lasciati liberi dalle costruzioni: lì mi pare ci fosse la Camilluccia, la casa di zio era più in là, o no? Il teatro sembrava più grande quando c’era, ma il negozio vicino alla chiesa era prima o dopo quella transenna? Anche qui, come in ogni paese terremotato, i “villaggi turistici” delle SAE, ben sistemati, con fiori e gazebi che fanno pensare che lì la gente ci starà per anni e anni, o forse per sempre.

Muccia stessa storia, anche se c’è una scuola fresca di inaugurazione, un marciapiede appena realizzato, un passaggio elevato in costruzione. Nella frazione di Vallicchio, dove hanno abitato per anni i miei nonni Antonio e Giulia, il passaggio mi è vietato anche solo per chiudere gli occhi e risentire le voci spensierate della fanciullezza. Rientro a Camerino, quasi mi sento fortunata. “Dai stai su, non ti lamentare, c’è chi sta peggio di te”, mi viene da pensare. Ma questa non è una gara al ribasso, non mi consola il fatto che io stia in un contesto, per quanto possibile, migliore di altri.

Questo è un territorio unico, un’unica comunità, una stessa storia che ci è stata strappata da sotto i piedi. E allora perché, camerti, vissani, castellani… lo abbiamo permesso? Perché a oltre 1.000 giorni dal terremoto non ci sono gru, impalcature, silos per il cemento, imprecazioni di muratori e rumori di mezzi in questa parte delle Marche? Ho una mia idea. Nell’immediatezza della catastrofe solidarietà, unione e buoni sentimenti hanno contrastato la paura. Lo Stato è arrivato subito sui luoghi in forma massiccia, con tutte le sue sfaccettature e ha messo in campo gli aiuti istituzionali per i terremotati, che portano il nome di CAS (contributo autonoma sistemazione), di soggiorno nelle strutture ricettive convenzionate, di SAE (soluzioni abitative di emergenza). Ebbene SAE, CAS e soggiorni sono stati come le brioches che Maria Antonietta voleva dare al popolo affamato di pane, un popolo, quello della regina di Francia, prossimo a scatenare la Rivoluzione. Ma il popolo dei terremotati la rivoluzione non la farà, perché le soluzioni abitative di emergenza, consegnate in ogni luogo dopo oltre due anni da quella emergenza, fanno villaggio di vacanza e a volte sono più comode, più calde, più funzionali delle case abbandonate, il contributo autonoma sistemazione fa reddito di cittadinanza per alcune famiglie che si vedono versare mensilmente sul conto corrente una somma, e in certi casi anche consistente, e a stare in posti migliori poi, dopo tre anni, pure un montanaro ci si può abituare.

E così ci si accontenta e a protestare a Roma si ritrovano in poche centinaia per un terremoto che coinvolge 4 regioni, che ha raso al suolo interi paesi e che ha fatto un bel numero di morti. Ci si accontenta, sì, e intanto la montagna muore e il progetto spopolamento ha il suo compimento anche con la connivenza dei nostri esigui numeri. Forse l’unico malato nella rianimazione post terremoto che la potrà raccontare è Camerino, non perché non sia grave la sua situazione, anzi le lesioni e i danni sono consistenti, ma essa al braccio ha attaccata una sacca di sangue buono che fa ben sperare su una ripresa, anche se lunga.

La marca di quel liquido rosso è #ilfuturononcrolla e il donatore è l’Università, Unicam, che fin da subito si è rimboccata le maniche, ha scansato i calcinacci, ricostruito e ha ripreso a fare didattica, contrastando con i fatti i disastri della natura. Il movimento degli studenti post terremoto fa normalità. Loro sono rumorosi, si ritrovano comunque, sono vita. Aggrappiamoci a questa vita, perché è l’unica speranza di sopravvivenza qui, crediamo intensamente di riportare in un futuro questa giovane folla in pieno centro, con di contro gli anziani a lamentarsi degli schiamazzi notturni. Crediamo nella guarigione, ma non smettiamo di pressare chi ci può curare con strumenti normativi snelli e finanziamenti mirati alla ricostruzione e non all’assistenzialismo, perché la restituzione di una città non vale nessuna baracca di lusso, né elemosina a termine, né villeggiature prolungate lungo la costa.

Non permettiamo a nessuno di comprare la nostra rassegnazione. Risvegliamo l’orgoglio di essere gente della montagna, di avere un patrimonio artistico, culturale, architettonico e naturale unico e alimentiamo ogni giorno la voglia di rientrare a casa, di rivivere nei piccoli centri storici. E che tale voglia si propaghi a macchia d’olio nei paesi vicini, per spazzare quel torpore di morte in cui sono avvolti, perché sé è vero che non è mai stato facile vivere in questi luoghi - anche prima del terremoto - certo è che una comunità come la nostra non può e non deve finire così.








Questo è un articolo pubblicato il 13-07-2019 alle 15:26 sul giornale del 15 luglio 2019 - 3893 letture

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